I due volumi delle Razdore piacentine, scritte dalla giornalista piacentina, tornano protagoniste a Pontenure sabato alle 17
Due dei libri più apprezzati e venduti di Edizioni Officine Gutenberg tornano su un palco per presentarsi. L’appuntamento è per sabato 18 a Pontenure alle ore 17 all’interno della serie di eventi di 45esimo parallelo. Due libri apprezzatissimi tuttora dal pubblico perché non rappresentano solo la cucina delle nostre nonne, ma soprattutto riportano le storie di vita di tante donne di Piacenza.
Chiara Ferrari: storie, cucina e… musica!
In vista di questa nuova presentazione, che si inserisce in un programma ricchissimo creato da 45esimo parallelo, abbiamo pensato di parlare con la stessa autrice delle “Razdore”, Chiara Ferrari su questi due volumi che tanto sono piaciuti ai lettori piacentini. Qualche domanda per tornare sulle Ricette delle Razdore Piacentine (ovviamente!) ma anche con uno sguardo al presente e al futuro…
Sabato 18 torni a presentare questi due best seller di Officine Gutenberg. Ci presenti l’iniziativa che accoglie questo momento, 45esimo parallelo?
Il 45° Parallelo è un ricco programma di eventi che si svolgono presso il Parco Raggio al Teatro Serra di Pontenure, un cartellone messo a punto dall’amministrazione e dalla biblioteca comunale, dalla quale sono stata contattata. È certamente una forte suggestione essere lì, considerando che il Teatro Serra si trova esattamente a quella latitudine, ovvero nel punto equidistante fra il Polo Nord e l’Equatore: cinquemila chilometri esatti da entrambi i punti.
È dunque uno spazio significativo, di incontro e confronto che, nell’edizione di quest’anno, vede protagoniste voci autorevoli della cultura e del giornalismo come Gad Lerner e Paolo Rumiz. Incontri pomeridiani e in orario serale, tra cui quello con Giovanni, fratello di Peppino Impastato. Ampio spazio è poi dedicato alla musica, al teatro, alle espressioni della cultura locale e un’attenzione particolare è riservata al mondo della natura.
Com’era nata l’idea di dare voce alle Razdore piacentine?
L’idea venne all’editore Giovanni Battista Menzani che voleva realizzare, non un ricettario, ma qualcosa di diverso. Parlando con le signore che via via andavo incontrando mi sono accorta immediatamente che le ricette erano un’occasione per parlare anche di altro. Ci si chiedeva come quelle ricette fossero nate, quando e perché. Chi le avesse insegnate loro, per chi erano state pensate, create, cucinate. Quale significato la cucina avesse per queste donne.
A seguito di tutti questi interrogativi il progetto si è dunque chiarito strada facendo. Ed è diventato una raccolta di storie al femminile, una testimonianza del nostro passato contadino, con i suoi riti, le tradizioni popolari, i dialetti, i mestieri scomparsi. E degli anni in cui la guerra ha tragicamente segnato il nostro territorio, fino poi alla ricostruzione con la voglia di convivialità che si è riversata nelle osterie e nelle trattorie della città e della provincia. Una raccolta di biografie in cui le esperienze di vita delle signore intervistate hanno rappresentato l’ingrediente principale delle loro ricette, risultato di un determinato contesto familiare e sociale, dei legami affettivi, di un territorio, di un periodo storico.
Naturalmente, nel corso delle interviste si è cercato di rievocare questa leggendaria figura femminile che ha popolato le terre d’Emilia ma non solo, la Razdora. E naturalmente ci sono le ricette, sia tradizionali, ma con il tocco unico di ciascuna, sia di libera creazione.
Altra caratteristica interessante sono le fotografie di Elisabetta Sfarra, che ritraggono non i piatti cucinati, ma le signore che con i loro racconti e le descrizioni dei procedimenti, ce li hanno fatti immaginare.
Tra i tanti incontri qual è quello che ti è rimasto più nei ricordi?
La parte più bella del lavoro è stata certamente l’incontro. In alcuni casi nella tranquillità delle loro case queste donne si sono sentite libere di raccontare anche fatti molto privati, come l’essere diventata ragazza madre a sedici anni in un paesino della provincia negli anni Cinquanta, o l’essere rimaste vedove molto presto e l’aver faticato duramente; l’aver vissuto anni di estrema povertà e miseria, riuscendo a campare di mestieri umili, nelle campagne, nelle case di famiglie benestanti a fare la serva. Ma sono sempre stati racconti pieni di orgoglio e di riscatto.
Ci sono storie di donne che da generazioni conducono l’attività di famiglia, come la Trattoria di Biana o l’Osteria del Sole a Travo che ha appena festeggiato i cento anni, guidata da donne. Ci sono storie commoventi come quella di Giuseppina Fulgosi che ha ricevuto il premio della bambina più buona del paese; ci sono racconti molto crudi della vita da mondina; storie che si dispiegano nella parte più estrema della nostra provincia, a Vesimo, a Capannette di Pey, punto di congiunzione tra Emilia, Lombardia, Liguria, Piemonte, dove cambiano i dialetti e gli ingredienti.
Quale lezione si può trarre da queste donne?
In tante mi hanno colpito perché, da sempre relegate al secondo piano della Storia, qui le donne sono protagoniste di un riscatto, di una affermazione di talento e di capacità imprenditoriale. Tanta caparbietà, il coraggio di emergere, di realizzarsi in un mestiere che richiede creatività, ma anche competenze di gestione aziendale, abilità relazionali. Per molte la cucina ha rappresentato la possibilità di essere autonome, di apprendere sul campo da bambine un mestiere e di mettere in pratica quanto imparato, senza università, senza certificazioni. Con la forza della tenacia e del talento, sopportando fatica e stress.
La cucina è stata per le donne una delle poche possibilità nel passato di ottenere spazi di indipendenza e libertà, imponendosi anche sulle figure maschili di padri, mariti, fratelli. L’opportunità di creare qualcosa che avesse valore nel tempo, che si potesse tramandare e che per questo resterà per sempre vivo. Non solo nelle trattorie, ma anche e soprattutto nelle cucine domestiche, dove nonne, madri e figlie si sono passate il testimone.
Si cucina per dimostrare la propria personalità, il talento creativo (la cucina come arte), la propria libertà; si cucina come esperienza di cura verso il prossimo, familiare oppure no; si cucina per lasciare un’eredità. Trovo tutto questo un insegnamento inestimabile.
Passati un po’ di anni, la voglia di tornare con un nuovo volume sulle Razdore un pochino c’è?
Credo che queste storie debbano essere raccolte prima che si perdano, perché rappresentano un patrimonio di cultura popolare, non solo culinaria. Mi piace l’idea di poter raccontare un territorio e la sua storia, da questo punto di vista, quello delle donne che, partite dal niente, hanno faticato per affermarsi, e sono riuscite nella loro impresa.
In chiusura: tu hai scritto di cucina, ma sappiamo che ti occupi di musica. Da pochissimo è uscito “Le donne del folk. Cantare gli ultimi”, ci dici qualcosa su questa tua fatica letteraria?
Questo ultimo lavoro è una ricerca che unisce quarantasei biografie di cantanti, interpreti, cantautrici, tra Europa, Medio Oriente, Africa, America Latina, Stati Uniti. Edita dalla casa editrice Interno4 di Rimini è debitrice di un lavoro di anni, dedicato alla canzone d’autore e folk, svolto per la rivista dell’Anpi, Patria Indipendente.
Mi sono chiesta come mai in diverse parti del mondo, in un determinato momento storico, così tante artiste si fossero rese protagoniste del recupero della tradizione culturale e musicale della loro terra.
In America Latina, In Inghilterra, in Grecia, negli Stati Uniti, in Sudafrica, in Medio Oriente, in Italia. Tutte con la medesima missione: preservare la cultura popolare del proprio paese e dare voce alle istanze dei meno abbienti, gli ultimi.
Sono donne, per le quali la canzone folk ha rappresentato uno strumento di lotta e di affermazione, personale e collettiva. Dalla ricerca è emersa anche una connotazione di “folk” che è difficile etichettare: espressione di libertà e denuncia delle discriminazioni; resistenza alle dittature; racconto della marginalità; ricerca delle origini di un popolo; autenticità e ritorno alle tradizioni, alle radici; grido di rabbia e disperazione; protesta, rivoluzione dal basso; canto necessario, accoglienza, voce collettiva, voce degli ultimi. Un modo di essere.
La ricerca ha coinvolto anche le voci di oggi, che guardano al passato e portano avanti nuove battaglie.