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Tre mesi per partecipare al concorso e uno spunto: il racconto “Pietro in diretta”

A 4 mesi dalla due giorni del festival “Incontri. Lettura, scrittura e fragilità” tenutosi a dicembre, un evento creato da Asp Città di Piacenza insieme ad Officine Gutenberg, l’organizzazione allunga i tempi per la partecipazione fino al 31 luglio del contest “Incontri ravvicinati del diverso tipo” (di cui trovate altre info sull’articolo di PiacenzaSera.it).

Ma non solo questo, infatti oggi per suggerirvi un testo su cui basarsi per il proprio scritto, che ricordiamo può essere reale o immaginario e che va spedito a comunicazione@officinegutenberg.it, vi proponiamo per intero il racconto “Pietro in diretta” di Matteo B. Bianchi, tratto dal progetto “Diritti senza rovesci” promosso dall’Inail. Eccolo!

Chi sta dicendo la verità, signora? La numero uno, la due o la tre? Ride sempre Ambra, anche quando parla al telefono con le gente da casa. È bella e simpatica. La signora dice la due e indovina. Ambra urla Brava, signora! e tutte le ragazze applaudono e parte la musichetta e cominciano a ballare. La telecamera si mette a volteggiare sullo studio, passa sopra le teste delle ballerine come un uccello in volo che gira e gira prima di tornare a inquadrare la conduttrice in primo piano. A quel punto Ambra mi guarda e dice Pietro, è ora di andare a lavorare.

Ma io non ho voglia di andarci. Voglio restare qui con lei e le ragazze e vederle ballare Please don’t go e ascoltare le altre telefonate. Non voglio, dico.

Dai, fai il bravo, fallo per me, dice Ambra.

Come faccio a rifiutarmi quando mi guarda così? E va bene, dico, ci vado.

Lei sorride e dice Bravo Pietro, un bell’applauso, e le ragazze mi battono le mani. Poi lei dice Passiamo a un’altra telefonata. Da dove chiama signora?

Ormai me la cavo bene, riesco a fare tutto da solo. La tazza per la colazione e la moka li preparo la sera prima. Preparo anche i vestiti, li appoggio sulla sedia della camera, così la mattina l’unica cosa che mi resta da fare  è andare in bagno e lavarmi. Il pulmino della Regione passa a prendermi verso le otto, anche alle otto e dieci se c’è traffico, e quando arriva devo essere già pronto.

Cesare, l’autista, è un tipo di poche parole. Certe volte parliamo un po’ nel viaggio d’andata, perché siamo soli io e lui, ma sempre poche frasi. Al ritorno invece non dice mai niente. Ci sono due malati d’Alzheimer, sono due anziani che preleviamo in ospedale, così chiacchiero con loro, mentre lui è concentrato e guarda la strada.

Anche stamattina mi sembra che non sia in vena di grandi discorsi. Apre le porte e aspetta che mi sistemi con la carrozzella. Devo bloccare le ruote e fissarla ai sostegni. I primi tempi mi aiutava lui, ma ora sono capace.

A posto?, chiede.

A posto, dico e lui mette in moto.

Guardo dal finestrino il cielo: è pieno di nuvole scure.

Mi sa che viene a piovere, dico.

Cesare dice speriamo di no. Ma non aggiunge altro.

Se ultimamente non ho più voglia di andare al negozio non è perché non mi piaccia lavorare, al contrario, mi piace tanto. Sono io che l’ho cercato: dopo che ho finito le scuole medie ho passato anni chiuso in casa, stavo solo con mia mamma e mia nonna, non vedevo nessun altro, non avevo niente fa fare.

Quando ho compiuto diciotto anni ho chiamato l’assistente sociale perché mi aiutasse a trovare un lavoro. Mi hanno fatto seguire dei corsi professionali per la ristorazione e sono stato inserito come stagista in diverse ditte alimentari, e poi una pasticceria industriale mi ha assunto.

Ricordo ancora com’ero contento di avere trovato un po- sto mio, con degli orari da seguire, delle responsabilità. Il mio compito era di confezionare le torte e attaccare gli indirizzi per le consegne. Non hanno voluto mettermi ai macchinari per l’impasto perché potevano essere pericolosi, ma a me andava bene così, che inscatolare, ricoprire con la carta e mettere le etichette è un lavoro anche di pazienza e importante.

È la risposta giusta? La accendiamo? mi chiede Gerry Scotti mentre gli racconto queste cose sul pulmino.

No, Gerry, gli dico, non è la risposta giusta. O almeno, era giusta all’inizio, ma poi è diventata tutta sbagliata.

Con i miei colleghi del laboratorio non mi trovavo male. Non dico che eravamo amici, ma lavoravamo insieme, tranquilli, senza che nessuno disturbasse l’altro. Poi una di loro, Alba, quella coi capelli tinti e i vestitini corti, che stava in negozio, ha cominciato a prendermi in giro, a mettere in giro cose false e cattive, davanti a tutti. Diceva: Lavati, che puzzi. Oppure: Cambia il cuscino di questa carrozzella che fa schifo. Oppure: Cambiati la maglietta, che sei sudato, si sente anche dall’altra stanza.

Non era vero, io lo sapevo, lo sapevano tutti, però intanto lei diceva queste cattiverie e gli altri giù a ridere.

Sono Pietro, chiamo dalla provincia di Brescia, la ragazza che dice il falso è la due, quella coi capelli tinti e il vestitino corto.

Quando entro in negozio Alba e Sonia girano appena la testa. Ormai non ci salutiamo neanche più. Purtroppo siamo costretti a lavorare insieme e questo è il motivo per cui ho perso tutta la voglia di venire qui la mattina.

Mi avvicino al computer, lo accendo e aspetto che si illumini lo schermo. Adesso che mi hanno trasferito di qua, in negozio, i miei compiti sono tutti diversi. Devo tenere in ordine le bolle degli ordini, cercare gli indirizzi dei fornitori, rispondere al telefono. Devo anche parlare con la gente che entra. Ma soprattutto devo avere a che fare con loro due.

Quando stavo in laboratorio potevo anche fare finta di niente, ma adesso qui, nella stessa stanza, è impossibile. Alba certe volte mi mette in ridicolo anche con i clienti presenti. Dice cos’è questo odore? E poi, ah, sei tu. Non puoi andare a cambiarti? E ridono, lei e Sonia, mi guardano e ridono. Due cretine.

Quando succede ci sono clienti che allontanano lo sguardo da me, imbarazzati. Si fissano la punta delle scarpe o fingono di guardare i pasticcini nelle vetrinette. Altri si mettono a ridere anche loro. Per imitazione.

Anche se le commesse dicono il contrario, io sono un tipo pulito. Mi lavo sempre a casa e mi cambio tutte le mattine prima di passare in negozio. Per farle stare zitte un po’ di tempo fa ho anche cominciato a mettermi un profumo, ma non è cambiato niente. Alba diceva, che puzza ‘sto profumo, era meglio prima.

Cercano solo delle scuse per insultarmi.

Stamattina non passa più. Guardo l’orologio sulla parete in fondo e ho l’impressione che segni sempre la stessa ora. Ho risposto a tre telefonate di gente che voleva sapere se le loro ordinazioni erano pronte e ho dovuto cercare i numeri di alcuni fornitori nuovi per Franco. Sul computer mi hanno messo un programma apposta, così posso tenere in ordine tutti i nomi dei fornitori, i numeri, gli indirizzi.

Quando finalmente le lancette segnano l’una mi sembra un miracolo. Mi spingo fuori dal negozio e sulla porta urlo ciao. Lo grido forte perché le due streghe capiscano che non sto salutando loro ma i ragazzi dietro. Però non risponde nessuno, forse non hanno sentito.

Io non lo so chi l’abbia inventato il pavé, però di sicuro so che non stava su una sedia a rotelle, altrimenti avrebbe capito subito che si trattava di una pessima idea. Le ruote rimangono continuamente incastrate fra una mattonella e l’altra e si fa una fatica terribile anche a percorrere pochi metri. Così per pranzo non posso allontanarmi troppo, devo restare in zona. C’è una pizzeria in fondo alla via, ma ha due gradini all’ingresso. C’è un altro ristorante in piazza, ma ha la porta troppo stretta e la carrozzella non ci passa. Rimane solo la paninoteca Benny’s, con le porte a vetri automatiche e a livello stradale, che per me è perfetto. Però uno si stanca anche di mangiare panini tutti i santi giorni.

Sono Pietro, vengo dalla provincia di Brescia, ho la schiena bifida e l’idrocefalo. Sono nato con l’invalidità totale alle gambe e sono qui a Mi manda RAI Tre per dire che nel quartiere dove lavoro non so dove andare a mangiare perché c’è il pavé per terra e le rotelle si incastrano dappertutto, tutti i bar e i ristoranti del quartiere hanno delle barriere che non posso superare con la carrozzina. Ho scritto anche al comune per lamentarmi, ma non mi hanno neanche risposto.

Io non ho molti amici. Mia mamma è scomparsa nel ‘99  e mia nonna l’anno scorso. Adesso vivo da solo. Della mia famiglia restano mia sorella e i miei zii, che vengono a darmi una mano ogni tanto.

Le cameriere di Benny’s mi conoscono, sono simpatiche con me, mi dicono ciao Pietro come va oggi? o cosa ti porto bello? e sorridono sempre. Mi piacerebbe se potessero fermarsi al tavolo e mangiare un panino con me, ma devono lavorare e non possono. Una volta l’ho chiesto a quella coi capelli rossi corti e lei mi ha detto tesoro, non posso, sto lavorando. Mi ha chiamato tesoro quella volta lì.

Oggi la ragazza coi capelli rossi non c’è, è il suo turno di riposo il martedì. Mi serve quell’altra, la mora. Non mi porta il menù perché tanto i nomi dei panini li so a me- moria. Cosa vuoi oggi? chiede. Io ordino un Pirata, senza la maionese, e una coca. Lei scrive Pirata senza maionese sul blocchetto e va a portarlo al bancone.

Mentre aspetto il panino entra Maria De Filippi con tutti  i suoi Amici. I ragazzi della scuola si siedono al tavolo con me, devono aggiungere delle sedie perché sono tanti. Maria dice cantiamo qualcosa per Pietro e mi domanda che squadra scegli? Io scelgo la squadra bianca. E chi vuoi sentire? chiede Maria. Ci penso un po’ su. Li guardo uno per uno, i ragazzi aspettano che io prenda una decisione. La mia preferita però è Roberta e scelgo sempre lei.

Mentre mangio il panino ascolto Roberta che canta tutta per me.

In negozio prima le commesse erano tre, c’era anche Marialuisa, però poi si è licenziata e Franco ha deciso di mettere me al suo posto. A me spiaceva lasciare il laboratorio, e gliel’ho detto. Ormai avevo imparato bene a posizionare le torte senza farle cadere e a metterle bene  al centro della scatola, così che non si rovinassero nel trasporto. Ero diventato veloce. Andare in negozio voleva dire cominciare di nuovo e ricoprire mansioni tutte diverse. E poi non sopportavo l’idea di dover stare a contatto di Alba tutto il tempo.

Quando Franco è venuto a comunicarmi che mi trasferivano di là ho detto subito che non mi piaceva l’idea, che volevo stare lì. Ho un bel caratterino io, lo so, e se penso una cosa la dico, ma lui è il capo, ha detto che erano esigenze della ditta e che anche lui vorrebbe poter fare solo le cose che gli piacciono, ma sul lavoro si è costretti a fare dei sacrifici e accettare i compiti che ci vengono dati. Gli ho spiegato che non era solo per il lavoro, ma anche per via di Alba, delle cattiverie che dice su di me. Lui ha sorriso e ha detto, ma dai, sta solo scherzando.

Franco è il fidanzato di Alba.

La cosa brutta è che quando qualcuno comincia a trattar- ti in un certo modo, allora anche agli altri viene da fare  lo stesso. Se prima era solo lei a prendermi in giro, adesso sono in quattro o cinque, anche del laboratorio.

Quando rientro dalla pausa pranzo mi accorgo che sul mio armadietto c’è attaccato un foglio con lo scotch. Mi avvicino per vedere che cos’è ed è una foto tagliata da un giornale. Si vede un bambino obeso e sopra qualcuno ha scritto “Pietro in miniatura”. Non è la calligrafia di Alba, la conosco bene per gli ordini che scrive in negozio. È di qualcun altro.

Strappo il foglietto e mi metto a cercare Franco. Lo trovo alla macchinetta del caffè che parla con uno dei pasticceri. Gli mostro il foglio e dico questa storia deve finire.

Lui e l’altro guardano la foto e scoppiano a ridere. Avanti, Pietro, è solo uno scherzo. Non puoi prenderla sempre così male, dice Franco. Uno scherzo è bello finché è corto, ma qui la storia va avanti da anni. E poi mi spieghi perché gli scherzi sono sempre e solo su di me? urlo. Non urlare, dice lui, che non è il caso. E riprende a sorseggiare il suo caffè. Torno di là in negozio col mal di stomaco.

Le cretine quando mi vedono entrare si scambiano e uno sguardo e un sorrisino dei loro. Non gli do neanche la soddisfazione di guardarle, mi metto subito al computer come se avessi del lavoro urgente da fare.

Se va avanti così mi viene l’ulcera allo stomaco. Ho avuto un’ulcera al piede tempo fa, ho preso antibiotici per quattro anni, poi me l’hanno dovuto amputare. Devo anche pensare alla salute, non solo ai soldi. Sto cominciando a considerare di licenziarmi. Quando l’ho detto a mia zia una sera a cena a casa sua lei mi ha detto che non dovevo assolutamente farlo, che un posto fisso è importante e di questi tempi ancora di più.

Negli anni che sono rimasto chiuso in casa e non vedevo nessuno, restavo in camera a guardare la tv tutto il giorno. Televisione e basta. Così, dopo un po’, mi è sembrato che loro, i conduttori della tv, fossero i miei veri amici.  E infatti ancora adesso è così. Sono molto meglio della gente che ho intorno.

Nel pomeriggio cerco di concentrarmi sulle telefonate che devo fare. Rileggo i registri per vedere se sono in ordine. Faccio finta di dimenticare anche la storia del bambino obeso, e quasi ci riesco.

A un certo punto succede una cosa strana. Entra in negozio un uomo in divisa. Da noi viene gente di tutti i tipi, ma forze dell’ordine mai. Sarà successo qualcosa?

Sonia gli va incontro per vedere cosa ha bisogno e l’uomo chiede di me. Sonia gli indica la mia postazione, dietro il computer, e poi dice Pietro, ti cercano.

Il poliziotto si avvicina. Possiamo uscire un attimo? dice. Devo farle alcune domande. Cosa vorrà da me?, penso. Comincio a spingermi fuori, ma senza guardare mai nella direzione di quelle due vipere.

L’uomo dice di essere della Digos. Mi fa alcune domande semplici tipo dove abito, con cosa vengo al lavoro. Poi  mi chiede se conosco la scuola Diaz. Gli dico di sì, che la conosco, è una scuola media vicino a casa mia.

È lì che vai a spacciare? mi chiede all’improvviso, con tono brusco.

Rimango senza parole. A spacciare? Io?

Lo sappiamo che spacci davanti alle scuole, dice lui. Lo guardo allibito.

Sappiamo anche chi sono i tuoi complici, aggiunge. Droga? Complici? Ma cosa sta dicendo?

Il poliziotto dice che mi hanno tenuto d’occhio. Che mi hanno visto più volte confabulare con due sospetti all’ingresso dell’istituto Diaz.

Adesso capisco. Sono i due ragazzi peruviani che stanno sempre al cancello della scuola. Ogni tanto quando li incontro mi fermo a parlare con loro. Sono gentili con me, mi raccontano certe cose della loro terra. Dicono che gli manca tanto e che se non fossero così poveri tornerebbero subito invece stanno qui in Italia perché devono lavorare.

Sono solo due ragazzi con cui parlo ogni tanto, dico all’ufficiale. Lo vede in che condizioni sono? Le sembra che potrei fare lo spacciatore? Siete pazzi. E poi sono io quello che ha guardato troppa tv.

Quando rientro le mie colleghe mi squadrano con uno sguardo di soddisfazione, come se fossi colpevole di qual- cosa e loro l’avessero sempre saputo. Sono quasi le cinque. Tra due ore finalmente potrò an- darmene, via da questo posto, via da questa giornata in- finita e terribile.

Per cambiarmi devo usare il bagno delle donne. Quello degli uomini è al primo piano e ha un gradino che non posso superare con la carrozzina. Per legge sarebbero obbligati a metterlo a norma, ma non l’hanno ancora fatto. Sono già passati cinque anni, ormai lo so che non lo sistemeranno mai. Mi devo arrangiare.

Quando entro lascio la carrozzina sulla porta, per fare capire che adesso è occupato. Prendo il tappetino che tengo sotto la sedia e lo srotolo. Poi scivolo a terra e comincio a spogliarmi. È difficile farlo da soli, sul pavimento e con l’odore del bagno che anche se è delle donne non è così pulito come dicono.

Quando ho finito e torno verso la carrozzina vedo che c’è un uomo con me dentro il bagno e non me ne ero accorto prima. Ma non può essere, è vietato entrare qui  ai maschi, escluso me. Alzo gli occhi e scopro che è Mike Bongiorno. Cosa ci fai qui, Mike?

Lui si guarda intorno, guarda il bagno stretto, la mia carrozzina e guarda me che sono per terra e mi sto trascinando verso l’uscita e dice Allegria, Pietro. Allegria.

“Pietro in diretta”, il testo di Matteo B.Bianchi estratto da “Diritti senza rovesci”

L’autore: Matteo B. Bianchi

Incontri ravvicinati del diverso tipo | Termine a luglio e l'esempio di Matteo B. Bianchi
Matteo B. Bianchi

Matteo B. Bianchi ha pubblicato i romanzi, Generations of love (1999), Fermati tanto così (2002) ed Esperimenti di felicità provvisoria (2006), tutti per Baldini Castoldi Dalai editore. Ha pubblicato inoltre il memoriale Mi ricordo (2004) per Fernandel e la favola Tu Cher dalle stelle (2006) per Play- ground. Nel 2008 ha curato, insieme a Giorgio Vasta, il Dizionario Affettivo della Lingua Italiana (Fandango).

Per sette anni è stato autore del programma quotidiano “Dispen- ser” di Radio Due RAI. Attualmente è uno degli autori degli show televisivi di MTV Very Victoria e Stasera niente MTV. Scrive su Linus e D di Repubblica. Cura on line sul sito www.matteobb.com la sua personale rivista di narra- tiva ‘tina e scrive sul blog www.matteobblog.splinder.com

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